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Francesco Imbimbo – L’ANNO CHE GESÙ SALI’ SUL CALVARIO SENZA CENA.
Aprile 4, 2021 h 8:00 - Aprile 25, 2021 h 17:00
All’incirca un mese fa, riprendendo in mano alcuni spunti progettuali inediti risalenti al 2012, incentrati su una rilettura dell’Ultima cena in versione installativa, nella forma di uno spoglio scenario simbolico, sfrondato del canonico corredo di personaggi, mi ritrovai a elaborare traiettorie di sviluppo allora inimmaginabili. Non appena mi resi conto che, contestualizzato nelle surreali consuetudini dell’era Covid, il soggetto cadeva sotto una luce completamente nuova e stimolante, il restyling mi ispirò un nuovo titolo: L’ANNO CHE GESÙ SALI’ SUL CALVARIO SENZA CENA.
Presto, mi convinsi che la “passione” che l’intero comparto della ristorazione avrebbe vissuto per la seconda Pasqua consecutiva esigeva un gesto sincero di solidarietà. Magari espresso proprio da quel mondo della cultura (artistica) che, insieme ad esso, sta scontando il contraccolpo più cospicuo di questa sospensione forzata. Mi piace pensare, infatti, che quei settori considerati sacrificabili e ancora inchiodati alla “panchina” nella fase strettamente emergenziale, debbano veder riconosciuta l’imprescindibilità del loro ruolo subito dopo, nella stagione della ricostruzione.
Pasqua –dicevo- sembrava ancora oltre l’orizzonte; eppure, considerando i tempi tecnici e le incognite implicite in una sfida ad alto tasso di sperimentazione come questa, a maggior ragione di fronte alla prospettiva di un’imminente paralisi della mobilità, era praticamente dietro l’angolo. Allora, intravvidi un’opportunità attraverso un ginepraio di complicazioni, e ho continuato imperturbato a tener fisso lo sguardo all’obbiettivo, mentre le spire delle ordinanze si stringevano inesorabilmente intorno all’entusiasmo mio e di quanti se ne erano lasciati contagiare. Paradossalmente, proprio ciò che ha reso possibile l’impresa, rendendo temporaneamente agibile una mole di arredi inutilizzati altrimenti assai difficili da reperire e impegnare, l’ha condannata –l’avevo messo in conto- a una visibilità puramente virtuale, pregiudicando modalità di fruizione più confortevoli. D’altra parte, ci sono situazioni in cui la valutazione della pertinenza di un intervento deve anteporsi a considerazioni di convenienza. Nella misura in cui la sua scalpitante urgenza di esistere scavalca ogni concreta chance di manifestarsi compiutamente.
Mi sia consentito qualche doveroso ringraziamento. L’apertura di questo cantiere dell’immaginario sarebbe stata impensabile senza la rinnovata ospitalità, sempre sollecita e prodiga di suggerimenti, di Eugenio Perissutti, soprattutto per gli spazi messi a disposizione, con preziosi margini di autonomia, presso locali dell’ex-ferramenta Krainer. Ma tutto ciò sarebbe stato inutile senza il complice incoraggiamento dell’associazione “Via Rastello”, a cominciare dalla presidente Chiara Canzoneri. Anche il supporto dell’artista Sara Lamanda, un vulcano di soluzioni e un emporio ambulante di materiali, nella temporanea eclissi dei punti di riferimento più scontati, si è rivelata una risorsa decisiva. Non posso tacere la collaudata consulenza illuminotecnica di Antonio Bidoli, la cui disponibilità e inventiva ne fanno assai più di un fornitore di tecnologie per l’illuminazione di indiscussa competenza. Una menzione particolare va a Marilena Piras, che alla causa ha portato lievito, sfornando su commissione il pane segnato dal sigillo della croce. A scongiurare poi la conversione dell’impresa in una sorta di “mandala artistico”, dove il compimento dell’opera coincidesse con la sua distruzione, mi sono affidato a un fotografo smaliziato e sensibile come Stefano Benetti; fondamentale in condizioni di ripresa così ostiche. A lui è toccato l’arduo compito di catturare in un sontuoso reliquiario fotografico quella sdrucciolevole nota di vino rubino dall’ardore sanguigno che dilaga sulla scena. Ora guidando, ora seguendo gli step del suo lavoro di acquisizione e interpretazione, ho potuto apprezzare l’istinto sicuro con cui ha saputo distillare nella mia elegia di una convivialità perduta, appena corretta da una salubre ventata d’ironia, la vena apocalittica che sottende così larga parte del mio lavoro, mettendo per così dire a nudo l’atmosfera da “vendemmia delle nazioni” che trasuda da ogni cosa.
Forse è proprio per il fatto di essere divenuta espressione della resilienza di una comunità dalla connotazione territoriale così riconoscibile (a volte quasi circoscrivibile a un quartiere) se ho scelto di apporre a un’opera, per altri versi ammiccante all’universale, una nota così schiettamente “local” come la mia scherzosa variazione sul cartello I.N.R.I., efficace –suppongo- per caratterizzare lo spirito di una scommessa.
Un elemento, quest’ultimo, che mi premuro di richiamare all’ovile, riprendendolo a prestito da un’esperienza di allestimento condivisa, ma solo per restituirlo con un supplemento di significazione. Anche per meglio enfatizzare il dialogo assiduo con LC_DDS, l’autore dell’installazione @DE.com_POSIZIONE, all’interno del quale l’intuizione era balenata nel maggio dello scorso anno. Idealmente, il presente allestimento può essere letto come una prosecuzione di quel dialogo, complice qualche evidente analogia tematica, qui ancor più esplicitamente vincolata a ricorrenze calendariali. Ad accomunarci la consapevolezza del subdolo cortocircuito simbolico cui si trovano esposti i fondamenti stessi della nostra civiltà, per effetto di una minaccia pandemica che ci ha costretti a sospendere i riti della condivisione, così come buona parte di quelle interazioni che ci connotano come esseri umani. Nell’opera sopraccitata l’abominio di una crocefissione senza deposizione apriva le porte a un’aporia teologica; infatti, a rigore, non potrebbe darsi neppure resurrezione ove al corpo venisse negata una pietosa sepoltura. Nel mio caso, tale cortocircuito si è tradotto a livello compositivo in una convergenza implosiva tra l’iconografia della Crocefissione e quella dell’Ultima cena: la desolazione di una mensa senza commensali non incarna forse lo scandalo della crocefissione che le nostre comunità stanno sperimentando anche meglio del Golgota stesso?
Sul fatto che, prima o poi, questo virus sarà neutralizzato o debellato non ho dubbi; l’incognita che al momento mi tiene di più sulle spine è quanto di ciò che ci rende propriamente umani sopravviverà alla disinfestazione.
Francesco Imbimbo